Testi Efest

UN RAMO DI VOCE
Josephine Foster è un’aria rarefatta, che si respira. L’aria inebriante di un’opera lirica nella sua accezione originaria, poetica. Memoria pura declinata al presente.Scava delicatamente, soffiando sillabe prolungate che riportano alla luce quanto sepolto da un eccesso di coscienza. Un bosco popolato di suoni significativi in cui perdersi per mano per poi ritrovarsi esattamente lì dove vorresti; tra cespugli di parole, cullato dalla voce narrante di un’idea. Scopri che la nostalgia suona l’armonica. Suona l’incanto del tempo, la sedimentazione lenta e paziente capace di vette, acuti monumentali a certificazione o riscatto di altrettanti baratri. Suscita stupore l’altra impietosa nostalgia di ciò di cui più di ogni altra cosa siamo incapaci: trattenere il calore prodotto dal nostro stesso corpo, disperdendolo. La poesia è un miraggio scritto, quindi fissato per sempre. Tradizionale come la realtà, un pezzo di verità levigata, così che ti ferisca. Una riflessione insistita con la stessa dedizione esercitata dal mare su di un frammento di vetro, finalmente calpestabile. La sua voce è come un ramo. Possiede la grazia, la forza e l’ostinata eleganza di chi si fa largo nel vuoto. Di chi schiva il nulla e cresce arrampicandosi nell’aria. Una linea sinuosa e resistente, sottile come un filo. Un filo d’inchiostro che volteggia felice su carta, il cielo della letteratura. Un disegno dalla facile complessità del canto degli uccelli e delle poesie. Dalla naturalezza di un sospiro e della solitudine.
(Testo per il programma di sala del concerto di Josephine Foster. Catania, 2010)

IL PRESENTE APPENA PASSATO
C’è un momento in cui il presente è appena passato, ma non è ancora memoria. Matt Elliott è il cantore di questo istante infinito, in cui i secondi si pietrificano.Parla  da quel frangente e non di quel frangente. Lo rendiconta sul campo nel pieno dell’azione appena successa, registrando gli ultimi riflessi che attraversano la mente prima del buio abbandono, prima che sia troppo tardi pur essendolo già. Quel vuoto irreale immediatamente successivo ad ogni frastuono prima che muoia in silenzio, che sprofondi con fragore nella negazione di sé, spegnendosi nelle sue stesse scintille. Un luogo di assoluta solitudine in cui anche i pensieri e le parole sembrano volerci abbandonare, affrettandosi ad essere pensati e il più possibile pronunciati. Approfittando della massima forma di coscienza istintiva, la stanchezza. I lamenti sono parole primordiali in queste canzoni che bevono, che falliscono, che ululano. Cori solitari determinati dalla concomitanza dei pensieri reiterati. È il momento in cui ci si osserva con partecipato distacco -protagonisti e spettatori insieme- accomunati nel destino compiuto e concluso in te stesso. La genesi di un ricordo. Quando la rabbia asciuga la sua voce dolente al sole oscurato del disincanto, precipita lentamente sul fondo e scioglie i tormenti nell’amarezza. La musica di Matt Elliott è un mare: gli stessi presagi, abissi, insidie, la bonaccia che nasconde una burrasca in grembo e i nemici invisibili come il vento. Il canto è una narrazione, il disincanto il suo rovescio. Un accadimento che si legge a ritroso a cominciare dalla fine.
(Testo per il programma di sala del concerto di Matt Elliott. Catania, 2010)

L’INCHIOSTRO DELLA VOCE
All’origine la letteratura era affidata a uno strano tipo d’inchiostro, trasparente e non ancora essiccato. L’inchiostro della voce. La melodia invisibile del parlare, memoria volatile.I racconti tramandati in groppa alle parole, lentamente hanno finito per sedimentarsi su un fondo bianco, rigandolo con lacrime orizzontali. Pagine e pagine asciugate da giorni andati. Briciole di mille argomenti in bella copia. La produzione letteraria dispone di una smisurata pre-produzione verbale, grande quanto l’intero passato. Per non parlare delle voci silenziose dei pensieri, delle tante paure e degli impossibili desideri che muovono le parole da secoli. La scrittura è l’ombra che proiettano su carta. Piccoli pianeti solitari resi in questo modo abitabili. Quel puntino blu nell’universo, sarà dovuto all’inchiostro? La calligrafia vocale di Olof Arnalds è proprio così, una forma letteraria liquida. Una coscienza discorsiva. Preziosa e fragile come un cristallo d’acqua. Quanto di più antico nella sua manifestazione più recente. Un canto che rinnova il tessuto melodico tradizionale con uno stile rivoluzionario: la semplicità. Espediente indispensabile a rendere credibili le storie più inverosimili, segreto artificio di tutti i racconti. La realtà è troppo astrusa per non ricorrere a simili trucchi narrativi. Con questa voce incantevole ciò che è stato parla di presenza. Una voce particolarmente umana, rassicurante, illuminante, d’inafferrabile evidenza. Melodie che conosciamo senza saperlo, immediatamente familiari. Una lingua apparentemente incomprensibile che attinge allo stesso patrimonio, così come i vulcani da una parte all’altra del pianeta allo stesso nucleo. Una voce come quella dei libri e dell’Islanda, bianchi e rivelatori entrambi. Te ne accorgi dal calore delle parole covate a lungo. Dalla sensibilità conservata intatta dal freddo della lontananza. Sembra che legga il cielo, senza alcuno sforzo, quasi fosse scritto sopra gli occhi di tutti a costellazioni cubitali. Un braille cosmico che bastava saper interpretare. Tutto questo te lo dice con una melodia. L’antica melodia del presente. L’inizio perenne di ciò che viene prima e di ciò che seguirà.
(Testo per il programma di sala del concerto di Olof Arnalds. Catania, 2010)

IL RUMORE DELL’IMMAGINAZIONE
ovvero IL SUONO DEL BUIO
L’immaginazione, come tutte le cose, fa rumore. Solo che lo fa con il suo linguaggio, è un rumore immaginato. Capita a volte che venga trascritto da qualcuno. A questo si assiste quando Marc Ribot suona, quelle sono le corde dell’immaginazione: è il suono del buio.Indecifrabile al pari degli impulsi da decrittare, somiglia a uno stenografo intento a trasferire lo spartito dell’ombra, una galassia di particelle catalogate ciascuna con la sua nota distintiva. L’effetto è quello di un’enciclopedia della musica consultata aprendo le pagine a caso. Ogni sua esibizione, in edizione non rilegata e impreziosita da appunti e sottolineature, è una dimostrazione pratica sempre diversa. Dal vivo crea, non esegue. È una delle poche cose cui anche l’assistervi è un merito. Sceglie con naturalezza le note meno frequentate e ne sospende il giudizio, senza dimenticare che, in alcuni casi, meno note si suonano e più hanno lo spazio per risuonare. Sembra maneggiarle, le solleva a mezz’aria lasciandole cadere, le dilata e le fa rimbalzare per ascoltarle da tutti i lati. Bisogna avvicinarsi con cautela a Ribot e rapinargli quanti più insegnamenti possibile, se te lo lascia fare. “Non importa in quale direzione vai, l’importante è che arrivi fino in fondo, trovi sempre qualcosa”. Lui la cerca scavando con le dita e trovando un varco sempre nuovo, una strada -inedita o abbandonata- che non ripercorrerà mai più. Lascia tracce per non ripercorrere i suoi passi. E riesce a dare l’impressione di sapere esattamente cosa fare, pur non avendo ancora deciso com’è che lo farà. L’improvvisazione è una disciplina, un metodo in assenza di regole. Una forma che si compie lasciandola aperta o -in caso d’emergenza- rompendola volutamente. Una tecnica sopraffina celata negli imprevisti. Tutto può accadere. Mentre quello che vedi nelle registrazioni è già successo, come nei film. Anzi, è già non successo. Possiamo così seguire nel dettaglio anche una storia che non esiste. Un delicato omaggio a ciò che non c’è. E Marc Ribot nel suo Film cieco sa come argomentarlo. Usa le note come millimetri sfusi, come secondi in attesa di risposta, una scrittura musicale che chiama a raccolta il silenzio. Perimetra il vuoto così come un calco lo rende tridimensionale e riconoscibile. I suoi brani sono le spanne della distanza, rende lo spazio tangibile e la trama sonora ne imbastisce l’illusione. Il suono è il respiro delle immagini. Come al Cinema, accade molto di più di quello che vediamo proiettato sulla superficie dello schermo. Il suo, è un lavoro tipico da sala di montaggio, recupera accordi, sequenze, suggestioni, idee, appunti -suonare è il suo modo di pensare- e li riassembla con la stessa incoerente omogeneità che spesso l’arte -e prima ancora la natura- ci regala, illudendoci che tutto abbia un senso, anche le cose sbagliate.
(Testo per il programma di sala del concerto di Marc Ribot. Catania, 2011)

CELLO
È inconsueto e levigato il rigore con cui Julia Kent rende attuale il suono di uno strumento classico; sovrappone dal vivo piccoli frammenti sonori e li ricompone in una partitura che ne orchestra l’ambito percettivo.Il suo personale approccio sonoro al violoncello, nella ricerca della sua intima voce, passa dal meticoloso arrangiamento di dettagli che ne interpretano di nuovo l’antico respiro. Come avviene in natura, la sua è una stratificazione progressiva di suoni che si combinano in figure melodiche semplicemente complesse, percorse da velature d’entusiasmante malinconia. Artista trasversale incline ad una sperimentazione dalle radici profonde, compositrice di un’audacia rassicurante, la si può considerare un’autentica suggeritrice di emozioni.
(Testo per il programma di sala del concerto di Julia Kent. Catania, 2012)

VIOL(A)
Strumento cordofono a frizione diretta, col manico (tanto per iniziare). Vanta più di un antenato e numerosi discendenti. Più che un nome, Viola è un cognome, trattandosi di un’intera famiglia.E come in ognuna di quelle che si rispetti, ciascuna dispone di un proprio carattere, operando con alterne fortune. Da braccio e da gamba, e poi d’amore, bastarda, pomposa, di bordone, di discanto. Sono molte le corde da pizzicare, ma solo quelle d’amore vibrano per simpatia.
L’epoca delle Viole è passata, eppure stasera possiamo ancora ascoltarne la voce, grazie a un Danilo Rossi quotidianamente attraversato da una scarica di insopportabile delicatezza, tale da costringerlo ad espirarne i residui. Così che il suono viola ancor più leggero, sfidando la sua stessa gravità. È la voce interiore dell’armonia: triste, appassionata e malinconica.
(Testo per il programma di sala del concerto di Danilo Rossi. Catania, 2012)

(           )
Colui che tace in tutte le lingue, questa volta canterà. Lo farà con un ruggito fioco, il suono di una rauca memoria. Le sue sono asciutte rovine verbali. L’ossatura di un tuono, inteso come fragorosa manifestazione di ciò che è stato.Cultore degli idiomi del silenzio ne conosce i segreti accenti e l’ortografia invisibile. Una partitura che fende con un filo di accordi prolungati. Le sue note sono piccole saette scoccate con l’archetto. Non fanno centro ma lo perimetrano a incorniciare l’inevitabile. È un distaccato cantore abile nel leggere il presente con gli occhi del passato, e quello di saper leggere a distanza è il dono classico della maturità. Quelli di Psarantonis sono sospiri ancestrali, mormora a voce alta a nome di tutti, con mitica ruvidezza. Narra di una realtà che non intende levigare, al centro della scena ormai vuota del passato. Un tempo che, come il silenzio, morde con le parole.
(Testo per il programma di sala del concerto di Psarantonis. Catania, 2012)

IL SUONO CANTATO
Raffinato interprete dell’arte che suona, il compositore -più che altro canadese- Eric Chenaux è artefice di uno di quei salti temporali che, con particolare efficacia, la musica è in grado di regalarci.In lui rivive per incanto la memoria resa liquida dei cantori e degli antichi compositori (spesso italiani) per chitarra. Ne sublima l’eco nell’inaspettato utilizzo di effetti legati a tutt’altra matrice sonora, come il wah-wah. Le sue sono pluri-melodie liriche, fluide simbiosi armoniche di chitarra e voce che si dissolvono le une nelle altre, senza alcuna possibilità di soluzione. Deforma il suono ondulandolo in composizioni di carattere contemplativo, oratori d’ispirazione astratta e di discreta solennità. Un canto a una voce sola, ma con più linee monodiche che si si intersecano alimentandosi a vicenda, in uno stormo sinuoso che migra nel tempo, più che nello spazio. Virtuoso sperimentatore di semplici armonie, giustapposte come le sfumature del tramonto. Le sue note giungono fino a noi per rifrazione, le udiamo quando già non esistono più. In questo la sua musica somiglia alla luce delle stelle, e ci dice di quanto possa essere vicina la distanza dei secoli.
(Testo per il programma di sala del concerto di Eric Chenaux. Catania, 2012)

VIAGGIO AL CENTRO DELLA MUSICA
Per la prima volta in Italia, l’orchestra flessibile (da 1 s 30 elementi) capitanata con impeccabile cortesia da Benedikt Hermann Hermannsson, inesauribile protagonista di una scena di prolifica promiscuità musicale. L’irruente gentilezza di tali gemme musicali ricalca l’orografia di un isola che veste di muschio la pietra nuda, rendendola soffice. Musica chiara e avvolgente come la lingua sconosciuta di una melodia comprensibile. Sono dei crescendo irresistibili, si gonfiano come onde che arrivano da lontano e si sollevano sopra di noi. Le cavalca indicandone la direzione, per poi percorrerla tutti insieme e tutto d’un fiato. Le sue audio storie seguono due registri, il tema raccontato a parole e lo svolgimento corale, il dettaglio verbale e l’intero paesaggio sonoro. I fiati, per le note, giocano il ruolo delle mongolfiere, per sorvolare i generi come nuvole. In pratica, riassume la faccenda fin dall’inizio e poi la lascia respirare, prende la rincorsa e spicca il volo. Sono fiabe dal vivo, apriamo gli occhi e abbandoniamoci a tale irruente delicatezza per mano -questa volta- di Kari, Ingi, Pall e Benedikt.
(Testo per il programma di sala del concerto di Benni Hemm Hemm. Catania, 2012)

WA  TER  FALL
La subliminale scrittrice di canzoni Josephine Foster ci ricorda che siamo fatti d’acqua, liquidi come sogni e trasparenti come ricordi. Cascate, fiumi, pozze, geyser, gocce, nebbia. L’acqua scorre come sangue in queste canzoni, fluisce esplode cade traspare. Il suo è un richiamo, un’invocazione che suona già da risposta. Una nuova costellazione si disegna nel suo firmamento musicale, racconta la sacralità delle stelle, degli antenati (brillanti astri invisibili) e della divinità di esser figli di tutto questo. Le sue canzoni vengono da lontano, fermandosi per una sera sulla zattera dello specchio d’acqua del Teatro Greco Romano di Catania. Josephine, Paz, Heather, Ben, Victor, che bello vedervi lavorare assieme, così felici di farlo. Lo si capisce dalle facce e dal modo in cui suonate. Certe cose accadono solo una volta, e questa volta è oggi.
(Testo per il programma di sala del concerto di Josephine Foster. Catania, 2012)